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Quando il fuoriclasse si ferma: il caso di Ronnie O’Sullivan

“Penso di essermi appena esaurito. Ho avuto troppa pressione in questo periodo, l’accumularsi di tutto quanto alla fine è stato un po’ eccessivo.”
(Ronnie O’Sullivan, 2025)
Chi è Ronnie O’Sullivan?
“The Rocket”. Un soprannome che basta a evocare il talento fulminante e lo stile unico di Ronnie O’Sullivan, considerato da molti il più grande giocatore di snooker di tutti i tempi. Con 7 titoli mondiali, 8 UK Championship e 8 Masters nel suo palmarès, O’Sullivan non è solo un campione, ma una vera e propria leggenda vivente.
Fin da giovanissimo ha dovuto fare i conti con la fama, le conseguenti aspettative e una vita sotto i riflettori. Inoltre, la sua infanzia non è stata per niente semplice:nel 1992, poco prima di diventare professionista, suo padre viene condannato a 18 anni di carcere per omicidio. Un evento impattante, un trauma profondo che avrebbe potuto distruggere chiunque. Ronnie, invece, ha scelto il tavolo verde come rifugio e riscatto.
Conosciuto per il suo carisma e il carattere imprevedibile, ha sempre mostrato il suo lato umano dietro il genio. Molto spesso, le sue reazioni fuori dalle righe sono diventate virali e, anche oggi, dopo decenni di successi, Ronnie continua a insegnarci che non esistono campioni invincibili.
“Una notte da incubo”
Facciamo un breve salto indietro nel tempo. È il 12 gennaio 2025, Londra. Mancano poco meno di quattro ore all’inizio del Masters quando Ronnie si ritira all’improvviso. Cala il gelo.
Successivamente, definirà la serata antecedente alla sua decisione come “una notte da incubo”. Aggiungerà poi: “Ho spaccato la stecca per l’esaurimento nervoso”. Questa frase lascia intravedere che il peso a cui era sottoposto in quel momento era insostenibile.
Non si tratta di un caso isolato: O’Sullivan aveva già saltato otto tornei nella stessa stagione, destando più di qualche sospetto in merito al suo stato psicofisico. Alcuni avevano persino insinuato che forse il suo tempo sul panno verde era giunto al termine. Dietro tutto questo, c’è qualcosa di profondo, invisibile e spesso nascosto negli sport di alto livello.
Che cos’è il burnout nello sport?
Per comprendere al meglio questo fenomeno, è necessario partire da una delle sue definizioni più dettagliate. Il burnout è una sindrome caratterizzata da tredimensioni (Maslach, 2003): (1) esaurimento fisico ed emotivo, (2) depersonalizzazione, ossia un distacco freddo e cinico dall’attività e (3) ridotto senso di realizzazione personale. Tale condizione è stata inizialmente concettualizzata nel mondo del lavoro, ma può essere traslata al contesto sportivo. In questo ambito è definita come “risposta cronica allo stress” che può portare un atleta ad abbandonare l’attività sportiva per cui provava piacere in precedenza (Smith, 1986). Oltre a questo, i suoi effetti possono invadere anche la sfera personale, lasciando strascichi importanti sull’atleta e sulla persona stessa.È quindi importante capire quali fattori possono mettere a repentaglio la condizione psicofisica dell’atleta, utilizzando il caso specifico di O’Sullivan.Ronnie ha ammesso più volte di essere un perfezionista incallito durante tutta la sua carriera; ha dichiarato più volte che il suo problema più grande è il non riuscire a perdonare sé stesso dopo un errore.
Il perfezionismo è un tratto che deve essere bilanciato in modo corretto per non diventare pericoloso (Květon et al., 2021). Questa disposizione molto spesso porta gli atleti ad allenarsi senza sosta, alla ricerca del gesto tecnico perfetto.
Prevenire il burnout: ascoltarsi per non spegnersi
Il burnout non arriva all’improvviso. È un fuoco che brucia lentamente, alimentato da stress cronico e difficoltà a trovare un buon equilibrio. Per questo, la prevenzione è fondamentale. Uno degli strumenti più efficaci è il recupero: non è solo pausa, ma parte integrante della performance. Il corpo ha bisogno di riposo tanto quanto di allenamento, e ignorare questo principio può portare rapidamente all’esaurimento (Kellmann, 2010).
A questo si affianca la mindfulness, una pratica che insegna ad “abitare il presente” e a focalizzarsi sul qui ed ora. Bastano pochi minuti al giorno per sviluppare maggiore consapevolezza del proprio stato fisico e mentale, ridurre l’ansia da prestazione e ritrovare equilibrio (Gustafsson et al., 2017).
Infine, un’abilità spesso sottovalutata ma cruciale è l’automonitoraggio: sapersi osservare, essere in grado di riconoscere i segnali di sovraccarico e di intervenire per tempo.
Saper dire “basta” non è debolezza, è una forma di intelligenza sportiva.
Ronnie O’Sullivan ha spaccato la stecca e abbandonato il torneo perché il suo corpo e la sua mente glielo chiedevano da tempo. Lo ha definito “una notte da incubo”, ma forse è stato proprio quel gesto estremo a salvarlo. Perché anche i fuoriclasse, ogni tanto, devono fermarsi. E avere il coraggio di farlo è già un primo passo per ricominciare.
A cura del Dott. Alberto Marchetti
Dott. Alessandro Bargnani | CEO CISSPAT LaB
Bibliografia
Kellmann, M. (2010). Preventing overtraining in athletes in high‐intensity sports and stress/recovery monitoring. Scandinavian Journal of Medicine & Science in Sports, 20(s2), 95–102. https://doi.org/10.1111/j.1600-0838.2010.01192.x
Květon, P., Jelínek, M., & Burešová, I. (2021). The role of perfectionism in predicting athlete burnout, training distress, and sports performance: A short-term and long-term longitudinal perspective. Journal of Sports Sciences, 39(17), 1969–1979. https://doi.org/10.1080/02640414.2021.1911415
Maslach, C. (2003). Burnout: The cost of caring. Ishk.
Smith, R. E. (1986). Toward a Cognitive-Affective Model of Athletic Burnout. Journal of Sport Psychology, 8(1), 36–50. https://doi.org/10.1123/jsp.8.1.36