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La motivazione e il suo ruolo nella performance sportiva
«Quando in una gara ti accorgi di avere dato tutto, ma proprio tutto, tieni duro ancora cinque secondi, perché è lì che gli altri non ce la fanno più»
(Alex Zanardi)
Secondo la visione di Francesconi la motivazione è un processo integrato, in cui interagiscono caratteristiche interne, di personalità ed influenze situazionali esterne.
La teoria che ha gettato le basi per gli studi sulla motivazione è la “Teoria della gerarchia dei bisogni” di Maslow, nota anche come piramide dei bisogni. Lo psicologo americano ha teorizzato l’esistenza di diverse tipologie di bisogni e motivazioni insite nell’uomo, sia di carattere biologico che sociale, e come queste fossero messe in una relazione gerarchica tra loro. Prima di soddisfare quelli posti in alto nella scala, il soggetto doveva soddisfare quelli più in basso.
Da ciò si evince come il prototipo dell’uomo in equilibrio sia colui che, spinto dalla motivazione, riesce a sviluppare tutte le sue potenzialità, “superando” gradino per gradino la piramide, fino ad arrivare all’autorealizzazione.
Le persone per loro natura sono attive e automotivate, vitali e tese ad avere successo, poichè il successo stesso è premiante e soddisfacente. Da questo concetto ne deriva la Teoria dell’Autodeterminazione (Deci e Ryan, 1985) secondo la quale il benessere di un individuo è il risultato della soddisfazione di tre bisogni psicologici di base:
Bisogno di autonomia – sentirsi libero in ciascuna azione e sentire che si agisce per propria volontà;
Bisogno di competenza – credere di riuscire ad agire con competenza nel proprio ambiente per lo svolgimento di compiti importanti;
Bisogno di relazioni – cercare e sviluppare delle relazioni sicure e positive con gli altri nel proprio contesto sociale.
Per soddisfare questi tre bisogni una persona deve sviluppare una certa dose di autodeterminazione, una combinazione di abilità, conoscenze e convinzioni che permettano all’individuo di adottare comportamenti autoregolati, autonomi e diretti verso un obiettivo.
Nel tempo, l’autodeterminazione conduce gli individui a impegnarsi in comportamenti agendo per scelta, piuttosto che per obbligo o costrizione, e ne va a caratterizzare l’orientamento motivazionale.
A tal proposito, McClelland e Atkinson creano un modello che ha come obiettivo quello di riuscire a prevedere il successo sportivo, considerando le inclinazioni personali dell’atleta, le aspettative e i valori che egli attribuisce alla riuscita e al fallimento.
Il modello valuta se l’atteggiamento dell’atleta è volto al raggiungimento del successo o all’evitamento del fallimento.
Gli atleti che possiedono un alto desiderio di successo ottengono prestazioni migliori rispetto ad atleti che invece hanno una bassa aspettativa di successo. Ciò trova conferma nella teoria dell’autoefficacia di Bandura che afferma come ognuno abbia una propria convinzione di essere più o meno capace nel fare qualcosa di specifico; nel caso dello sport, eseguire un fondamentale tecnico, o di mettere in atto comportamenti per poterlo realizzare.
Un’altra impostazione teorica è quella dell’attribuzione causale, che introduce il concetto di locus of control. Il soggetto spiega ciò che gli accade tramite un’attribuzione di significato, che può derivare dall’interno o dall’esterno.
Nel primo caso si riscontra un alto livello di attenzione ai propri stati emotivi e una buona conoscenza delle proprie abilità e dei propri limiti. L’attenzione, quindi, è focalizzata sul sé e viene usata per capire il modo più efficace di contrastare l’avversario. Di conseguenza un atleta con locus di controllo interno è tendenzialmente orientato al successo.
Nel secondo caso gli atleti non necessariamente sono meno orientati al successo. Il locus di controllo esterno rimanda a fattori situazionali che possono favorire o ostacolare un determinato comportamento.
In ambito sportivo le motivazioni sono molteplici e spesso interagiscono tra loro.
Negli studi motivazionali nell’ambito sportivo, la motivazione può essere classificata in fattori intrinsechi e fattori estrinsechi.
Questa classificazione deve essere però, concepita come un continuum che presenta ai suoi estremi, da un lato, gli atleti mossi solamente da motivazione intrinseca, dall’altro, gli atleti mossi solamente da motivazione estrinseca.
La motivazione intrinseca è legata ad una spinta interiore e non a ricompense esterne; perciò, il piacere della competizione, l’eccitazione derivata da una buona performance e il desiderio di imparare sempre di più, rappresentano per gli atleti il motore principale delle loro prestazioni.
Si parla invece di motivazioni estrinseche quando il comportamento non è mosso da spinte interne, bensì da ricompense esterne, quali il desiderio di successo, di denaro o di approvazione sociale.
L’atleta intrinsecamente motivato non ha bisogno di stimoli ulteriori o incentivi da parte dell’allenatore, perché è da sé proiettato al raggiungimento degli obiettivi (sia di squadra che personali) in misura maggiore rispetto ad un atleta estrinsecamente motivato.
Gli sportivi con motivazione intrinseca considerano, quindi, dipendenti dal loro comportamento gli eventi della loro vita, si mettono in discussione, hanno maggiore voglia di imparare e sono disposti a fare sacrifici per ottenere risultati. Questo li porta ad avere un impegno costante durante tutto l’arco del periodo di allenamento e non solo durante la competizione. Ragione per cui essi sono consapevoli che i successi o le sconfitte che verranno, saranno stati determinate principalmente dalle loro azioni.
Dall’altro lato del continuum troviamo gli atleti estrinsecamente motivati. Questi ultimi tendono a spiegare gli eventi della loro vita come risultato di azioni esterne, fuori dal loro controllo. Per portare avanti l’attività sportiva hanno un continuo bisogno di ricompense, o stimoli esterni, fattori che li portano a voler migliorare meno le loro abilità.
Un’altra componente molto importante nell’ambito dell’attività sportiva è senza dubbio l’autoefficacia. Questa è la convinzione che l’individuo ha di saper dominare specifiche attività, situazioni e aspetti che rispecchiano il proprio funzionamento psichico e sociale. Essa viene anche definita in termini di fiducia in sé stessi, in quanto il soggetto, essendo convinto di poter controllare determinate vicende, si fida delle capacità che possiede per realizzare ciò che si è preposto di fare.
In termini sportivi possiamo definirla come: “la fiducia che l’atleta ripone nei propri mezzi e nelle capacità personali, e che influenza fortemente la sua prestazione. Atleti non d’élite, ma che credono in sé stessi e si dimostrano risoluti nel conseguire i propri obiettivi sono spesso in grado di ottenere, soprattutto in gara, risultati migliori di soggetti più dotati sotto in profilo tecnico-fisico, ma che presentano una scarsa fiducia e una minore determinazione” (Tamorri).
Nello sport la fiducia in sé stessi è una componente fondamentale; non a caso diversi studi sull’autoefficacia in ambito sportivo, confermano che le convinzioni di efficacia influiscono sulla prestazione individuale e dunque sul risultato finale. Le percezioni di autoefficacia dell’atleta sono dettate dalle aspettative, dagli obiettivi, dall’impegno, dalla determinazione anche di fronte agli ostacoli che egli si trova davanti e, infine, dal controllo che è in grado di esercitare in specifici ambiti di azione.
Negli sport di squadra oltre al senso di efficacia personale entra in gioco il senso di efficacia collettiva. Bandura definisce l’efficacia collettiva come “la convinzione condivisa di un gruppo riguardo alla capacità congiunta di organizzare ed eseguire i corsi di azione necessari per realizzazioni di vario livello”.
Il senso di efficacia individuale precedentemente evidenziato agisce da moltiplicatore negli sport di squadra, influenzando sia la prestazione del singolo che quella del gruppo. C’è però da fare una precisazione, perché l’efficacia collettiva è qualcosa di più della somma dell’efficacia individuale. Il senso di efficacia del singolo atleta non va a sommarsi con quello degli altri atleti formando un senso di efficacia collettiva unico, ma sono tutti correlati alla prestazione del gruppo. Per fare un esempio: il gioco duro di una squadra è strettamente collegato al senso di efficacia collettiva piuttosto che all’autoefficacia del singolo. Allo stesso tempo, però, il singolo che si mette a disposizione della squadra, facendo leva sul proprio senso di efficacia, per esempio prendendosi la responsabilità di tirare un rigore o di marcare l’avversario più forte, aiuta la squadra nel raggiungimento degli obiettivi comuni.
A cura dei dott. Giorgia Condemi e Giorgio Sirianni
Dott. Bargnani Alessandro Ceo CISSPAT LAB
Bibliografia:
BANDURA, A. (1989). Human agency in social cognitive theory. American Psychologist, 44, n.9, 1175-1184.
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BOUET, M. (1974). I segreti psicologici dello sport. le motivazioni degli sportivi. Roma: Edizioni Paoline.
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MANDOLESI, L. (2017). Manuale di psicologia generale dello sport. Bologna: Il Mulino.
MASLOW, A. H. (1954). Motivation and personality. New York: Harper & Row.
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