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ABUSI E SICUREZZA PSICOLOGICA NELLO SPORT
Nel mondo dello sport, negli ultimi anni, si sono verificati dei casi di abuso che hanno sconvolto l’opinione pubblica.
Giusto per citarne alcuni: l’abuso sessuale di 256 atlete della nazionale statunitense di ginnastica artistica da parte del loro osteopata, il Dott. Larry Nassar, nel corso di 21 anni (dal 1996 fino al 2017, anno in cui fu processato); l’”Operation Hydrant” nel calcio inglese, un’operazione congiunta con la polizia dove sono state riportate 849 vittime di abuso provenienti da 340 squadre differenti e perpetrato da circa 300 persone; oppure negli Stati Uniti dove, a seguito di un’investigazione durata un anno nel calcio femminile di diverse categorie, è risultato che abusi verbali, emotivi e molestie sessuali sono radicati nella cultura delle varie società sportive, a partire già dalle squadre giovanili. E come non citare il recente scandalo nel mondo della ginnastica ritmica in Italia, da cui sono emersi abusi psicologici, verbali, carichi di allenamento insostenibili e digiuni forzati per tenere sotto controllo il peso, denunciati da ex-atlete della nazionale prima, e da atlete di altre categorie poi.
Lo sport è un microcosmo della società. Ciò significa che qualsiasi fenomeno che avviene nella società può verificarsi anche nello sport. Purtroppo, gli abusi non sono esclusi da questo concetto.
Non esiste una definizione universale di abuso, poiché varia in base alla cultura e al luogo in cui ci si trova. Generalmente si divide in 5 categorie: psicologico, fisico, sessuale, molestie e negligenza. Per abuso psicologico si intende denigrare, umiliare, respingere, isolare. Sono considerati comportamenti volontari, prolungati nel tempo e ripetuti. Per abuso fisico, invece, si intendono i danni fisici e/o traumi volontari, carichi di lavoro inappropriati e tecniche di allenamento pericolose, doversi allenare anche da infortunati ed il consumo forzato di sostanze. Con il termine molestie si definisce ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di discriminazione basata sul sesso, mentre per abuso sessuale si intende il coinvolgimento in attività sessuali, fisiche o psicologiche, di una persona non in grado di fornire il proprio consenso. Infine, viene definita negligenza l’incapacità di rispondere ai bisogni fisici ed emotivi di un individuo quando si hanno i mezzi, la conoscenza e l’accesso ai servizi per poterlo fare.
L’abuso viene spesso perpetrato da individui che si trovano in posizioni di potere e che sfruttano il rapporto di fiducia esistente con gli atleti. Alcune figure che rappresentano questa categoria di individui possono essere gli allenatori, i membri dello staff, gli amici, i fan e persino i compagni di squadra.
Le diverse tipologie di abuso sopracitate hanno conseguenze negative e durature sul benessere fisico, psicologico e sociale degli atleti. Possono causare la dipendenza da sostanze, lo sviluppo dello stress post traumatico, infortuni ricorrenti, depressione, ansia, malnutrizione, disordini alimentari, autolesionismo, diminuire l’autostima e la concentrazione. Sono anche causa di drop-out sportivo.
Visti tutti questi effetti negativi, viene spontaneo chiedersi per quale ragione non se ne parli e non si denuncino gli abusi.
Le motivazioni sono molteplici. Uno di questi motivi è un fenomeno che deriva dalla psicologia sociale, l’effetto spettatore. Si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono aiuto ad una persona in una situazione di emergenza, ma si limitano ad assistere passivamente. Sono diversi i fattori che portano a non agire: ad esempio, maggiore è il numero degli “spettatori”, ovvero coloro che non intervengono, minore è la probabilità che qualcuno di loro scelga di aiutare la vittima. Inoltre, il singolo individuo prima di intervenire pondera quali sono i costi e i benefici dell’agire.
L’atleta si ritrova quindi in una condizione mentale che lo porta a mettere in discussione il contesto che sta vivendo e conseguentemente ad interrogarsi su chi crederà alla sua testimonianza; quale impatto potrebbe scaturire dal raccontare a qualcun altro quanto accaduto; quali conseguenze potrebbe avere sulla sua carriera e sulla sua vita personale; quanto ciò possa influire negativamente sulla squadra o sul personale; quali sue azioni hanno fatto sì che si meritasse quanto accaduto e soprattutto se ciò possa davvero essere considerato abuso o meno.
Un ulteriore motivo per il quale c’è spesso silenzio rispetto a situazioni di abuso è perché l’atto di denuncia, per le organizzazioni sportive, potrebbe significare incorrere in danni alla reputazione e conseguenti danni economici sia nel breve che nel lungo termine. Questo, oltre al fatto di non essere spesso educati sul tema dell’abuso, “giustifica” la decisione di non intervenire e nascondere il problema, creando così la falsa credenza fra coloro che subiscono abusi che questi comportamenti siano considerati socialmente accettabili.
Non bisogna assolutamente dimenticare, però, che tutte le forme di abuso elencate finora costituiscono una violazione dei diritti umani. Ma, secondo uno studio condotto da Tuakli-Wosornu et al. (2022), la maggior parte degli atleti possiede una conoscenza solo parziale dei propri diritti, credendo inoltre di non poterli esercitare in allenamento o in competizione. Nonostante le atlete fossero consapevoli che la violenza di ogni genere non è appropriata negli sport, sono meno portate a chiedere aiuto perché temono di incorre in conseguenze negative. Gli uomini, invece, risultano essere più inclini ad accettare violenze e subire pressioni da allenatori, staff o compagni, in quanto questi atteggiamenti tendono ad essere normalizzati come facenti parte di una “cultura sportiva virile”.
Tutti gli atleti di qualsiasi età, genere, religione, etnia, orientamento sessuale e abilità psico-fisica hanno il diritto di praticare uno sport “sicuro”, attraverso la creazione di un ambiente rispettoso, equo, privo di favoritismi e di abuso di qualsiasi genere, e nel quale venga promossa anche una sicurezza psicologica. Per sicurezza psicologica si intende la percezione dell’individuo relativa alle conseguenze del rischio interpersonale nel luogo di lavoro o in questo caso nell’ambito sportivo. Lo psicologo William A. Khan (1990) definisce la sicurezza psicologica come l’essere in grado di esprimersi liberamente senza temere conseguenze negative rispetto alla propria immagine, status e/o carriera.
Come si crea un ambiente che favorisce la sicurezza psicologica? Attraverso una leadership che si assicura di gettare le basi per un clima di accettazione e assunzione di responsabilità nella promozione di un ambiente sportivo salutare e sicuro; promuovendo un cambiamento nella cultura sportiva della squadra attraverso i club e le federazioni, i quali hanno l’obbligo morale, etico e legale di seguire politiche volte alla protezione del benessere e della salute dell’atleta; ed infine sensibilizzando ed educando atleti, entourage, famiglie, dirigenti e personale medico-sanitario ad una comunicazione aperta e trasparente.
A cura della Dott.ssa Veronica Mattarozzi
CEO Alessandro Bargnani
Bibliografia
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