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IL QUARTO D’ORA GRANATA. Peak Performance ed ancore
- 22 febbraio 2021
- Posted by: matteopeccolo
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“L’Italia li amava, perché il Torino era lo sport italiano, era la sua sintesi più armoniosa, il Torino era l’Italia” scriveva così Gianni Brera, indimenticato giornalista sportivo. Il Torino, al quale si riferiva, è notoriamente preceduto dall’epiteto “Grande” ed era il manifesto sportivo di una nazione che si rialzava dalle macerie della seconda Guerra mondiale. Il Grande Torino incarnava la voglia di ripartire, di tornare a sognare e la necessità impellente di allontanarsi dai sanguinosi anni precedenti, era l’ambasciatore del nostro rinato dinamismo.
Proprio per questa fiumana di significati legati alla tracotanza calcistica che esprimeva, divenne presto la squadra più famosa al mondo, collezionava scudetti, frantumava ogni record e rimase imbattuto in casa dal 17 gennaio 1943 fino al giorno in cui concluse la sua trionfale parabola in quel tragico 4 maggio 1949 a Superga. Soltanto il fato li vinse. Nel mezzo: 6 anni e mezzo, 100 partite, 89 vittorie e 11 pareggi, 365 gol fatti, uno ogni 25 minuti, a testimoniare la sacra inviolabilità del suo stadio, il Filadelfia, una fortezza inespugnabile.
Il Grande Torino non tradiva mai e nella sua superiorità era addirittura prevedibile. A volte tergiversava, come il torero che maramaldeggia per aizzare il pubblico, ma sembrava tutto far parte di un copione scritto per rendere più sensazionalistica l’esecuzione finale. Capitava, infatti, che la squadra scendesse in campo eccessivamente rilassata e concludesse il primo tempo in parità o addirittura in svantaggio. Tuttavia, in questi casi, il Grande Torino sapeva ricompattarsi all’improvviso e surclassare l’avversario in una manciata di minuti, minuti nei quali andava in scena quello che la letteratura sportiva ribattezzò come “Il quarto d’ora granata”. La massima espressione di questa forma di onnipotenza sportiva è appurabile il 5 ottobre 1947 quando, dopo essere stati in svantaggio 1-0 contro la Roma per la prima ora di gioco, capitan Mazzola e compagni misero a segno 7 gol in 24 minuti suggellando una prestazione storica.
Vi erano due segnali che presagivano queste famigerate rimonte: il primo coincideva con il suono della tromba del signor Bolmida, il quale durante la settimana faceva il capostazione e la domenica sugli spalti si tramutava nel metronomo che dettava i tempi dello spettacolo in campo; il secondo veniva dato dall’antologico capitano Valentino Mazzola, che rispondeva alle ispirazioni musicali del signor Bolmida rimboccandosi le maniche. Bastava la combinazione di questi due gesti per “scatenare l’inferno” al Filadelfia, come se questi rappresentassero degli interruttori psicologici da pigiare al bisogno per trasformare undici uomini in un’armata invincibile.
Questi interruttori in psicologia dello sport vengono chiamati àncore e possono essere di diversa natura: un movimento (àncora cinestetica), un’immagine sulla quale focalizzarsi (ancora visiva), una canzone da ascoltare prima della partita o della gara (àncora auditiva). Tutte queste modalità possono consentire all’atleta di riconnettersi al proprio peak state, ovvero con quello stato emotivo e cognitivo funzionale per affrontare al meglio le prestazioni. Questo avviene poiché il nostro cervello associa un determinato stimolo alla corrispettiva risposta emotiva che questo ci evoca. Si installano, così, dei collegamenti inconsci che permettono a questi stimoli di attivarci nella maniera giusta e disporci alla performance. Le àncore possono essere spontanee, come nel caso del Grande Torino, o costruite artificialmente. A tal proposito, un esempio iconico è rintracciabile nella routine di movimenti che precede la battuta al servizio di Rafa Nadal, infatti la sequenza ben definita di palleggi con cui il tennista spagnolo prepara il servizio è un’àncora cinestetica dalla quale ricava la massima concentrazione e l’attivazione necessaria.
Nondimeno, l’efficacia di questo processo psicologico è già presente nella saggezza popolare di ogni cultura. Che siano riti scaramantici o vere e proprie danze, come nel caso dell’haka del popolo maori, l’essere umano ha da sempre sentito il bisogno di un gesto, di un oggetto o di un suono dal quale trarre forza nei momenti nevralgici della propria vita. È insita nell’uomo la necessità di trovare un “appiglio” mentale che concili l’autoefficacia e infonda sicurezza.
Costruisci, dunque, il tuo sistema di ancoraggio: esegui un gesto che ti dia sensazioni positive, ripetilo più volte e avrai creato il tuo marchio di fabbrica con cui connetterti al tuo peak state e dare voce alla miglior versione di te.
A cura del Dott. Matteo Peccolo.
Dott. Bargnani Alessandro Ceo Psicologi dello Sport Italia